giovedì 12 marzo 2020

I segreti del vetro in un piccolo libro


 

Monica Montanari


Il Libro di Vetro


di Monica Montanari 
Segnalazione
(Per Lettori di Enigmi) 

Il segreto delle cose



Uscito nel marzo 2020, questo piccolo libro consente di familiarizzare con la nomenclatura del vetro. La storia e i segreti di fabbricazione. Un itinerario di scoperte sull'ingegno dell'uomo e sui segreti della materia e della natura. Qui ne proponiamo un estratto ringraziando il Ponte Vetraio sul Parma che ha patrocinato e sostenuto finanziariamente questa pubblicazione. 

Il mare fu il primo a forgiare e modellare il vetro come sul fondo oceanico, le Navicelle di Venere che si innalzano dagli abissi delle Filippine. Spugne di vetro, nient’altro che scaglie di silice avvitate come ritortoli lattimi della filigrana muranese.
Il vetro dentro custodisce il mare: «60 parti di sabbia, 180 parti di polvere di alghe essiccate e cinque parti di gesso.» La formula antica ripetuta e trasmessa dai lontanissimi tempi del sovrano assiro Assurbanipal, sette secoli lungi dalla nascita di Cristo è valida ancor oggi. Porta nel vaso del vetraio sabbia e seccume d’alghe.
Dall’epoche arcaiche quelle alghe furono ridotte in cenere per trarne al massimo puro l’ingrediente, altrove s’andò a raccogliere il misterioso Natron, estrazione già bell’e fatta dalla natura. E ancora porta nel vaso il gesso, tenero e poroso questo, incompatibile con la trasparentissima materia di cui si tratta. Lo si direbbe. E invece no.
Sono pur sempre gessi quei secondari formati in pietre tanto trasparenti da essere utilizzati come vetri nelle finestre nella romanità classica: il terzo ingrediente. Sotto le colline di Brisighella vicino a Ravenna nelle importantissime cave, il gesso si trova nella forma secondaria di roccia stratificata in lamine di selenite, chiamata impropriamente pietra di luna.[1] Da essa i romani antichi ricavavano il lapis specularis. La selenite del lapis specularis consiste in lastre trasparenti come vetro. Esse intelaiate in cornici di legno costituivano finestre del tutto simili alle nostre familiari, con specchi trasparenti. Incredibile a dirsi, il miracolo della lucentezza restituito un materiale poroso e tenero come il gesso. Eppure basta il lento ridepositarsi del calcio disciolto in acqua nelle fenditure di roccia perché il tempo compia la trasformazione.
La tecnologia, che fosse l’alternativa del tempo? O aspetti che la natura fabbrichi il vetro o trovi il modo di non aspettare. E questo modo è la tecnologia. Altre tecnologie, pensiamo a quelle mediche, mirano a invertire il tempo, quelle produttive ad accelerarlo. Formule per condurci fuori del tempo, i riti di guarigione in periodo romanico venivano impostati quando il sole al solstizio estivo invertiva la marcia e ricominciava ad abbassarsi. Attorno al malato si snodavano ruote umane volte a girare in senso opposto alla direzione del sole, il cristo cosmogonico veniva ripercorso al contrario. Si invertiva la direzione del tempo dalla nascita alla morte, riorientandolo dalla morte alla nascita perché il malato interrompesse il suo cammino di consunzione e ritornasse a un precedente stato incorrotto. I giardini claustrali e quelli immaginati dell’Ipnerotomachia Poliphili e le prospettive centripete di quello dell’Armida di Tasso si avvitano fino al punto inafferrabile dell’innalzarsi di una verticale. Abbarbichiamoci a essa e fuggiremo dal tempo ergendoci dal centro esatto. La metafisica dell’ascesi segue i percorsi della colonna gassosa dell’athanor, quel filo aereo surriscaldato che superato l’ “altare” schermo refrattario, arroventava la cupola del “laboratorio” in quello che, in definitiva, era un forno a riverbero. La trasformazione alchemica dunque come inversione del tempo (separazione) e accelerazione del tempo (creazione). Fare il vetro ci porta esattamente a tali fasi e alle nostre alghe. Affinandosi l’arte di ingannare il tempo le alghe vennero calcinate per separare al meglio i loro costituitenti, estrarre il loro contenuto di sodio e confluirlo nel crogiolo insieme agli altri componenti. In realtà con il termine alghe si intendeva per la precisione una stranissima erba a metà tra il mondo acquatico e quello terrestre, la Salicornia, una crassulacea detta asparago di mare per il suo aspetto succulento a bastoncello. Cresce sulle rive sabbiose e viene a lungo sommersa dalla risacca. Le sue ceneri sono ricche di carbonato di sodio. Così come le alghe marine. Le piante del retroterra,  come faggi, querce e felci se calcinate davano invece carbonati di potassio e poterono ugualmente essere utilizzate per fare il vetro lontano dal mare come avvenne in Boemia, i cui vetri si sarebbero costituiti appunto ricchi di potassio. Seguiamo dunque la via della separazione e della cenere per ridurre al semplice la composizione del vetro di Assurbanipal: silice di quarzo (sabbia), sodio (Salicornia) e/o potassio (Querce, Felci e Faggi),  calcio (gesso).
Ma se il quarzo è già duro e trasparente come vetro, perché aggiungere a essa, materia perfetta, cenere e polvere? Il fatto è che per fondere il quarzo ci vuole il fuoco del cuore della terra, la temperatura forsennata del magma dove infatti le rocce assumono la lucentezza vitrea dell’ossidiana e quella cristallina del quarzo e delle gemme. Si tratta di sveltire ciò che la natura farebbe per noi, ecco dunque passare all’ottica creativa e all’arte della mescola.
Aggiungere un fondente al quarzo consentiva di abbassare la temperatura di fusione e dunque il tempo. La soda (il carbonato di sodio della Salicornia) e la potassa (carbonato di potassio di querce, felci e faggi) avevano appunto la funzione di abbassare la temperatura di fusione del quarzo. Sono dei fondenti. Un piccolo balzo all’indietro e torniamo al processo di separazione.
Torniamo alle ceneri e ai loro costituenti fondamentali per estrarre dalle ceneri delle piante un fondente ancora più più puro della tal qualis incenerita. Procediamo alla liscivazione: pocesso antichissimo consistente nell’ammollare in acqua la cenere e far bollire oppure aspettare e mescolare fino a maturazione. Che si sia ancora impazienti e si ricorra alla temperatura, o che, pazienti, ci si affidi all’attesa: le ceneri disciolte in acqua evolveranno in un composto viscido. Scartiamo i residui e ulteriormente scaldiamo il sugo di cenere e decantiamo fino al deposito solido di cristalli di sale: il carbonato di sodio (da ceneri di salicornia), carbonato di potassio (da ceneri di felci, quercia e faggio). Questo, che fu il segreto del trasparentissimo vetro veneziano, accomunava meraviglia, il vetro al sapone.
Col sugo di cenere si lavavano i panni un tempo e oggi aggiungendo adesso del grasso vegetale e animale si fabbrica il sapone. Quello per lavastoviglie  è invertito alla sua origine, è vetro solubile costituito da quarzo fuso con fondente ottenuto da liscivazione. Se nel vaso del vetraio non avessimo infatti l’ottuso gesso, il quarzo fuso nel crogiolo con fuoco e lisciva, alle prime piogge si scioglierebbe come sapone per lavastoviglie. Per avere infatti del vetro che non si scalfisca e non si dilavi dobbiamo mescolarlo a una sostanza sorda con funzione di stabilizzatore: gesso in una delle sue forme ostili o in quelle brillanti della pietra speculare o del marmo. Poi nel tempo si sarebbe scoperto che il piombo, sordo anch’esso al massimo grado, come stabilizzatore funzionava ancora meglio, dava trasparenza e duttilità.
Con ciò completata la separazione degli ingredienti della ricetta di Assurbanipal, la creazione, la lotta per battere il tempo, poteva cominciare. Bisognava mescolare gli ingredienti facendo in pochi giorni ciò che la natura impiega il maglio titanico per realizzare. Per il prodigio, l’athanor, un forno a riverbero, non poteva bastare. Ci voleva un forno a crogioli dove la miscela da fondere non viene in contatto né con con la fiamma, né con i gas di combustione. La miscela andava aggiunta man mano, al ridursi di volume di quella in fusione finché ce ne stava, poi si cuoceva e poi si alzava la temperatura per sublimare le impurità, poi si abbassava gradatamente a 1200 gradi per una fase di riposo in attesa della lavorazione. Le formule per rivaleggiare col tempo si sono tanto affinate che oggi per piccoli oggetti da lavorare con smalti bassofondenti esistono, a poche decine di euro, contenitori refrattari che consentono di sciogliere il vetro nel microonde.
E il natron?
Era il sale magico accumulatosi sul fondo di antichi laghi salati. S’erano prosciugati nella valle del Natron nell’entroterra di Alessandria d’Egitto. Al loro posto v’erano distese di soda allo stato minerale, preziosa e dai mille impieghi. Di natron c’è n’era talmente tanto che se ne realizzava vetro africano. Finchè l’economia della classicità tenne, di là, nelle sponde europee del Mediterraneo, si importarono blocchi di vetro da rifondere. Bastavano gli 800 gradi, questi sì in un semplice forno a riverbero, per poi raffreddare la massa in acqua per farne la “fritta”. La fritta era polvere di vetro da ulteriormente schiarire, decolorare, colorare, filare in murrine, stampare, soffiare, smaltare... Il natron restò fondente minerale ricercatissimo fino al Medioevo. In quei tempi i veneziani decisero però di emancipare la propria arte e utilizzare solo ceneri di Salicornia.
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Personalmente delle meraviglie vitree passate in rassegna quella che mi incanta è il famoso calice rinascimentale muranese con lo stelo ingalantato e la corolla a zanfirico. Leverei l’impalpabile intreccio di bolle di vetro cosparso d’oro a pulviscolo. Me lo vedo colmato di Gattinara a sorseggiarlo in un posto speciale. Sì, ma quale, dove? S’uno sperone di roccia romantico? In un bosco?
No, il miglior posto è la banchina della Giudecca, gli occhi fissi ai bagliori freddi della spuma di laguna, i cieli piatti spazzati da refoli dinarici, le trasparenze madreperlacee delle nubi su cui si confondono i merletti delle finestre veneziane e i profili cupoliformi della basilica. Ed è confezionando un desiderio impossibile che il vetro si rivela, distillato dall’intera laguna, la Serenissima e la sua storia
(Monica Montanari- Il Libro di Vetro, Parma, Mamma editori, 2020. Con patrocino e sostegno de Il Ponte. Vetraio sul Parma)



[1] Essa non va confusa con la vera pietra di luna o Adularia che è un silicato di sodio, un feldspato.



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